Sessualità e disabilità: riflessioni per familiari e operatori

La sessualità nell’ambito della disabilità è un tema complesso 

Parlare di sessualità nell’ambito della disabilità è senza ombra di dubbio una sfida difficile che mette a dura prova tutti i soggetti coinvolti nella relazione. Nessuno di questi può però esimersi dall’affrontare il tema della sessualità, poiché essa stessa riveste un ruolo fondamentale per il  benessere della persona.

La stessa Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sostiene che:

La salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire a un arricchimento della personalità umana, della comunicazione e dell’amore.

Per molte persone, parlare di sessualità è ancora un tabù.

Se da un lato le relazioni umane appaiono più “libere”, dall’altro si ha l’impressione di una difficoltà di vivere la sessualità come rapporto carico di affettività.

Affrontare il tema della sessualità e disabilità solo sotto un profilo medico si rivela oltremodo riduttivo in quanto non si pone attenzione su un requisito fondamentale della persona, cioè l’identità sessuale.

 

Identità ed educazione sessuale

L’identità sessuale rappresenta un lungo cammino progressivo di costruzione del sé che non può precludere l’approccio sessuale con l’altro.

Per le persone con disabilità tuttavia questa ricerca non è sempre facile, e spesso risulta avere molti ostacoli sia oggettivi che legati al contesto sociale e culturale.

In quest’ottica ecco che l’educazione sessuale assume un ruolo centrale, fornendo quegli strumenti per far sì che la relazione con l’altro trovi le proprie coordinate di senso, dove l’individuo acquisisca le competenze necessarie per capire come funziona il proprio corpo, quali sono i suoi limiti e le sue potenzialità.

Tutto questo si carica d’importanza tanto più ci addentriamo nella realtà della disabilità, dove stereotipi e pregiudizi sono duri da scalfire.

 

L’obbettivo del percorso

Questo percorso non deve avere come obiettivo il raggiungimento di una “normalità sessuale”, e noi operatori dovremmo smettere di cercare “manuali d’istruzione” per affrontare il tema della sessualità nella disabilità.

E’ necessario iniziare a guardarci dentro, partendo dalla consapevolezza della propria esperienza personale, in una continua ricerca di significato, indispensabile per comprendere i bisogni della persona.

In questo senso Davide Dettore, nel suo libro (Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale, Milano, McGraw Hill, 2001) individua tre ambiti di competenze, che i titolari dell’azione educativa dovrebbero possedere ovvero l’ambito di:

  • conoscenze: competenze sulle basi anatomiche, psicologiche, culturali e sociologiche all’interno delle quali dovrebbe essere inserito ogni intervento di educazione alla sessualità.
  • emozioni: consapevolezza delle emozioni elicitate dalla sessualità, in modo da riuscire a discernere tra contenuti propri/altrui e tra intenzioni/ motivazioni, il tutto per riuscire a dare a ogni intervento educativo una direzione di senso non dettata dalle proprie rappresentazioni.
  • atteggiamenti: si fa riferimento ai propri contenuti di pensiero, a come la propria storia personale influenzi i giudizi sulla sessualità, a eventuali stereotipi legati al genere.

Noi operatori, nel momento che instauriamo una relazione d’aiuto con una persona fragile, dobbiamo ricordarci che dobbiamo saper contenere, nel senso di dare dei limiti, ma anche saper tollerare e accogliere l’altro.

 

Educazione sessuale e metodo narrativo

Si è osservato come sia funzionale inserire in “narrazioni” i comportamenti sessuali inattesi quando questi si manifestano perturbanti o fuori dal contesto di scambio affettivo.

Le figure coinvolte nella relazione d’aiuto, siano essi operatori, familiari e insegnanti ecc.., più che impegnare risorse nel cercare di nascondere o liberalizzare comportamenti sessuali, dovrebbero tentare di inserirli in narrazioni che ammorbidiscano l’effetto straniante dell’agito sessuale.

Questo lo si può fare attraverso un “racconto” che accolga il bisogno della persona ma allo stesso tempo lo renda accettabile.

Ad esempio, di fronte ad un atto masturbatorio in pubblico, dire:

“Luca se vuoi stare un po’ da solo ti accompagno di là”

potendo così gestire la situazione sul momento, distaccando la persona dalla mera pulsione e accogliendo contemporaneamente il diritto del soggetto di esprimere una parte di sé così importante.

Oppure, di fronte ad una ragazza che si butta fra le braccia di un ragazzo, dire:

“ma allora Sara, vuoi proprio bene a Filippo”

questo consente di portare su un ambito di affettività un comportamento a cui si cerca di dare un significato.

E’ quindi lavorando all’interno delle famiglie, con il metodo del coach familiare, che si ha la possibilità di lavorare su più fronti:

  • il primo sulla persona, con disabilità, ponendosi come facilitatore nella conquista della propria identità sessuale.
  • il secondo sulla famiglia nel suo complesso, facendo prendere coscienza dell’importanza di questo aspetto estremamente complesso, ma fondamentale di ogni essere umano.

 

 

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