Diagnosi della persona con disabilità: utili o inutili?

Sull’inutilità della diagnosi della persona con disabilità

Lavorare con la disabilità significa avere a che fare con molte persone che presentano situazioni personali molto diverse fra loro, e che possono portare ad avere comportamenti molto diversi gli uni dagli altri.

Quando incontro una famiglia, la prima cosa che mi viene detta è la diagnosi della persona con disabilità, ossia l’etichetta che viene appiccicata alla persona e che probabilmente la segnerà a vita.

Spesso mi viene offerto di leggere la documentazione sanitaria relativa alle varie visite mediche-neuropsicologiche-psichiatriche-psicologiche-ecc. che sono state fatte nel corso degli anni.

Confesso che una volta le leggevo, ora non più, o meglio le leggo solo dopo diverse settimane o mesi dall’inizio dell’intervento.

Quello che infatti ho notato nel corso del tempo è che non sempre le cose scritte nella diagnosi sono utili per il mio lavoro; a volta ho proprio il dubbio che siano utili in generale.

Per spiegare il mio punto di vista, porto ad esempio il caso di Susanna.

 

Il caso di Susanna

Susanna è una donna di circa 35 anni, che vive in casa con i genitori, entrambi in pensione. Susanna non lavora da anni e (a suo dire) è alla ricerca di un’occupazione stabile.

Ha un ritardo mentale che ad un primo approccio non appare: è di buona compagnia, solare e aperta nelle relazioni. Tende a voler fare le cose che le piacciono, al punto che negli anni scorsi ha rifiutato diversi lavori che le aveva proposto l’assistente sociale, e in altri casi si è licenziata da tirocini lavorativi perché:

Il padrone mi chiedeva delle cose che non mi piacevano. E allora me ne sono andata

Per la cronaca, le cose che non le piacevano erano spazzare il pavimento o di andare ad aiutare a scaricare della merce arrivata.

Possiamo affermare che Susanna sa bene cosa le piace fare: guardare la televisione, scrivere messaggi ai suoi amici, fare una passeggiata ogni tanto, fare la spesa con i suoi genitori. La sua vita scorre molto prevedibile e senza grandi novità.

Volendo testare le sue abilità e autonomie, le propongo di cucinare insieme.

Il primo giorno cuciniamo le lasagne al forno: con la mia supervisione Susanna prepara la besciamella, precuoce le lasagne in acqua, prepara gli strati sovrapposti nella pirofila, inforna il tutto. Durante la preparazione, oltre a qualche suggerimento in alcuni passaggi, non ho fatto molto, le ho chiesto:

Susanna, adesso che hai fatto la besciamella, cosa dobbiamo fare?

E lei mi ha risposto:

Adesso devo cuocere le lasagne in acqua, poi vanno asciugate su uno strofinaccio e poi nella pirofila. Dobbiamo alternare gli strati fra pasta, ragù e besciamella.

Dimenticavo di dire che Susanna non aveva mai fatto le lasagne da sola, aveva visto la madre farle ma senza aiutarla mai.

Sembrava avere tutti i passaggi in testa, e anche se a volte aveva bisogno di qualche suggerimento, dava l’impressione di padroneggiare la situazione.

La volta seguente abbiamo preparato una cotoletta e patate fritte, e la musica non è cambiata. Anzi: Susanna mentre tagliava le patate si è fermata per accendere il fuoco sotto l’olio:

… perché l’olio deve essere caldo quando le buttiamo.

Altri piatti abbiamo fatto insieme, e sempre con gli stessi risultati.

Susanna faceva fatica ad avere la concezione del tempo che passa (ad esempio, voleva scolare la pasta un minuto dopo averla buttata), ma per il resto è stata brava.

 

La diagnosi di Susanna

Adesso leggiamo qualche frase dalla sua valutazione psicodiagnostica, realizzata due anni prima.

Si legge nella valutazione:

Susanna (…) possiamo presumere che sia in difficoltà nel definire gli obiettivi del proprio comportamento, nel pianificare le azioni per raggiungere tali obiettivi, nel mettere in atto le azioni stesse e nel verificare e controllare gli esiti alla luce degli obiettivi che si era prefissata.

Leggendo queste frasi, Susanna non potrebbe pensare di cucinare da sola! Invece era quello che era successo.

Come è possibile questo? È possibile perché le valutazioni diagnostiche avvengono per lo più presso studi professionali o ambulatori; le persone vengono portate al di fuori del loro contesto familiare, e viene chiesto loro di avere delle performance con stimoli che spesso non hanno alcun significato.

Ad esempio, se chiediamo ad una persona di ricostruire una figura a partire da forme geometriche, ci può essere quella persona che si impegna, ma anche quella che capisce che alla fine della prova si tornerà a casa, e quindi tenderà a sbagliarla nel più breve tempo possibile per far terminare quel supplizio.

In questo caso, all’esaminatore non resterà che segnare la prova non superata, e attribuire un basso punteggio nella prova.

Da qui a definire basso il Quoziente Intellettivo (QI), il passo è breve.

I test attitudinali dovrebbero essere svolti invece a domicilio e con materiali stimolanti e motivante per la persona, altrimenti si corre il rischio che la prova non venga superata perché non viene capito il perché di una determinata azione.

 

La diganosi nel caso di Guido

Mi viene in mente anche il caso di Guido, ragazzo autistico nella cui valutazione era scritto:

Non in grado di capire e portare aventi sequenze di comportamenti; la capacità di comprensione di ordini anche molto semplici è molto limitata.

Peccato che un giorno, arrivato a casa sua, gli chiesi di farmi un caffè, e Guido prese la moka e fece tutti i passaggi alla perfezione. E preparare il caffè non è forse saper padroneggiare una sequenza di comportamenti?

Poi gli chiesi di aprire la finestra perché faceva caldo; lui andò e la aprì.

In un colpo solo, Guido aveva smontato (senza saperlo) le conclusioni del professionista che l’aveva visitato un anno prima.

 

Le Diagnosi: utili o inutili?

Le diagnosi sono utili per semplificare in poche parole una quantità di informazioni; pensate a non poter definire Guido “autistico”. Come descrivereste il suo comportamento? Utilizzando la parola-diagnosi, ci facciamo subito un’idea approssimativa della situazione.

Però limitarsi alla semplice diagnosi può essere molto pericoloso, perché si rischiano di fare delle conclusioni affrettate e, forse, sbagliate.

Quello che tutte le famiglie dovrebbero pretendere da noi professionisti è l’analisi funzionale, ovvero l’analisi delle autonomie funzionali alla vita di tutti i giorni, corredate da tutte le strategie che possono essere messe in campo dalla persona per raggiungere un obiettivo.

Questo però, nell’opinione di chi scrive, deve essere realizzato al domicilio della persona, con il metodo del Coach Familiare, perché:

  • Aiuta a contenere l’ansia da prestazione, che in un ambiente medicalizzato è molto presente;
  • La persona può utilizzare utensili di uso comune, che conosce;
  • Si possono prevedere azioni motivanti, come ad esempio preparare una pietanza che piace, o giocare ad un gioco conosciuto

A queste condizioni potremmo avere un quadro più preciso della persona, conoscendo ciò che la motiva e ciò che la annoia o disturba. E potremmo anche risparmiare tempo: ad esempio, che senso ha testare la motilità fine di Claudio, quando sappiamo che suona (bene!) la chitarra?

Il mio invito quindi è a utilizzare di più le situazioni reali e meno i test standardizzati, che a volte possono essere fallaci per il contesto nel quale sono applicati.

E, se qualcuno se lo stesse chiedendo, il caffè di Guido era proprio buono!

 

 

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