Empowerment e rete sociale: un percorso di coach familiare
Abbiamo già dedicato alcuni articoli all’empowerment, ma prima di parlare della storia di Sara e del suo percorso di coach familiare, ricordiamo cosa s’intende per empowerment in psicologia.
Empowerment è un processo che mira a favorire l’acquisizione di potere, cioè accresce la possibilità delle persone di controllare attivamente la propria vita.
La storia di Sara: quando e come l’ho conosciuta
Conobbi Sara all’età di 32 anni e da ben 10 anni era tetraplegica e viveva a casa dei genitori. Non è sempre stato così.
Sara a 22 anni era una donna attiva e indipendente.
Aveva due lavori ed era da poco andata a vivere con la persona che amava. Faceva sport, aveva molti amici e amava guidare la sua motocicletta.
Proprio la stessa motocicletta che in una mattina di 10 anni fa prese per andare a lavoro.
Sara a seguito dell’incidente riporta una percentuale di disabilità psicofisica del 97%, passa un anno della sua vita in ospedale a lottare per riabilitarsi e una volta uscita torna a vivere nella casa dei suoi genitori.
I famigliari di si prendono cura di lei in maniera eccellente, si accertano che non gli manchi mai niente e dotano la casa di tutti gli ausili essenziali.
Vengo contattato dai servizi sociali per valutare il livello di assistenza offertole e quanto questo possa gravare sui genitori ormai avanti con l’età.
Le uscite di Sara sono molto limitate, non ha amici e varca la soglia di casa tre volte a settimana per andare al centro diurno e il sabato sera per mangiare una pizza veloce con i genitori.
Sempre nello stesso ristorante e sempre nell’ansia che possa sopraggiungere un attacco in pubblico. Nient’altro.
La madre di Sara vorrebbe che riacquistasse la mobilità del braccio e si prodiga in tutti i modi per rintracciare le migliori terapie riabilitative.
Il primo obiettivo del percorso di coach familiare
Dopo un primo contatto con la famiglia e con Sara, viene stabilito come obiettivo principale del percorso di Coach familiare l’insegnare a Sara l’utilizzo del tablet.
Per due ore a settimana mi reco presso il suo domicilio e fin da subito capisco che l’obiettivo fissato con la famiglia risulta essere eccessivamente irrealistico.
Sara non ha la motricità sufficiente a poter utilizzare un tablet al momento, ma la cosa che più mi preoccupa è la sua frustrazione.
Nel corso dei primi due incontri mentre tento di osservare e comprendere fino a che punto possa utilizzare lo strumento tecnologico richiesto.
Sara fa molta fatica, non riesce a tenere la mano ferma e non può effettuare il movimento del doppio tap.
Sara è frustrata e scoppia in un pianto disperato che la porta alla dispnea.
I genitori spiegano che questi attacchi di pianto disperato sono la causa che li costringe a casa.
Di fatti tali attacchi debilitano tantissimo Sara e i genitori non si sentono di riuscire a gestirli in pubblico.
Vedo solo che Sara sta soffrendo e decido di desistere, ripongo il tablet e noto impolverata su una mensola una vecchia playstation.
A quel punto chiedo alla madre che mi risponde che si tratta della console di Sara, lei la adorava prima dell’incidente e ora da dieci anni prende polvere su quella mensola. Decido di accendere la playstation e iniziare a giocare, volontariamente enfatizzo tutto il gioco.
Come un adolescente sbraito contro lo schermo e incredibilmente Sara ride, si diverte.
Non l’avevo mai vista così gioiosa, è la prima volta che non scoppia in una crisi di pianto in mia presenza.
E’ la prima volta che mi cerca con gli occhi quando faccio per andare via, che sembra dirmi di restare.
La necessità di svago
A seguito di quest’episodio si rende evidente l’incredibile bisogno di questa ragazza di svago, di rivivere il mondo al di fuori della sua casa.
In fondo Sara ha 32 anni, ha tutte le cure necessarie ma non ha accesso a una dimensione adulta, è trattata in tutto e per tutto come una bambina.
Chiedo ai genitori di poter svolgere i miei incontri con Sara all’esterno, a fare una passeggiata al bar a vedere la partita della sua squadra del cuore o semplicemente a prendere un caffé.
Inizialmente la mia proposta trova molte resistenze.
La madre è preoccupata e restia, ha paura che possa succedere qualcosa di grave, che possa avere una crisi all’esterno.
Si fida di me, ma ha paura, è bloccata da questa angoscia.
Consolatorio è in un certo senso sapere la figlia nella sua stanza con tutti gli ausili, nessuno può sapere cosa può voler dire avere un figlio nato completamente sano che un giorno nel pieno della propria giovinezza esce di casa e non torna mai più come prima.
Trattarla come una bambina la consola le fornisce il controllo, in buona fede, in una situazione così drammatica che di controllo ne ha ben poco.
Iniziamo così le nostre uscite per la città dapprima accompagnati dal padre con la macchina attrezzata per trasportare Sara e poi da soli, conquistando una sempre maggiore autonomia.
Sara si mostra molto felice ed adeguata al contesto anche in posti nuovi, non ha nessuna crisi all’esterno.
Il processo è ancora lungo, si deve puntare su empowerment e rete sociale
La vedo come una grande conquista ma ancora c’è molto lavoro da fare, in primo luogo per generalizzare questa ritrovata parziale autonomia al di fuori delle mura domestiche, senza la necessità che sia presente la mia figura.
E in secondo luogo non meno importante, vorrei puntare alla ricostruzione di una rete sociale amicale.
Penso sia giunto il momento di puntare su empowerment e rete sociale.
Ph: Tim-Marshall-Unsplash