Vita affettiva e sessualità nella persona con disabilità
Lo studioso Dahrendorf, nel suo libro dal titolo Libertà attiva (2005), scriveva:
La diseguaglianza, in termini di differenza umana, è un elemento della libertà. E, di riflesso, solo quando la società sarà capace di dare spazio di espressione alle differenze tra gli uomini essa potrà definirsi davvero libera
La lotta per modificare la percezione negativa che la società ha della diversità è iniziata ormai da anni, ciò nonostante i pregiudizi che si sono incistati nei secoli risultano difficili da sradicare.
La società ancora continua ad identificare la disabilità come una malattia, la persona con disabilità come “insana” e spesso l’idea di “malati” che si dedicano ad attività riservate ai “sani”, può ancora creare imbarazzo e disagio. Parimenti, anche il sesso rimane un aspetto delicato, legato così com’è a paure, ambiguità, considerazioni di carattere etico oltre che igienico e, molto spesso, ancora percepito come un tabù.
La sessualità nella disabilità: un tabù
La convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata nel 2009 in Italia, riconosce tutta una serie di diritti fondamentali, fra cui gli interventi che sostengono l’educazione e la tutela della sessualità umana anche per le persone con disabilità.
Fino a qualche decennio fa, il discorso relativo alla sessualità nei soggetti con disabilità veniva considerato tabù, dunque censurato dalla letteratura, dalle strutture, così come anche dai familiari delle persone coinvolte.
Ciò perché, da un punto di vista sociale ed istituzionale, l’atteggiamento che più si era portati a rivolgere ad una persona con disabilità era quello tipicamente assistenzialista, cioè incentrato unicamente sulle dimensioni della protezione e del prendersi cura di una persona, in quanto “difettosa”, sensibile, fragile, “sfortunata” rispetto agli altri.
Gli stereotipi
Questi sono i principali stereotipi che ancora oggi pregiudicano il bisogno, nonchè il diritto alla sessualità delle persone con disabilità, definiti – ormai dal senso comune – come “angeli asessuati” o “eterni bambini”.
Questa, difatto, è una regola vera quasi per tutti: in un certo senso, le persone con disabilità non smetteranno mai di essere “i figli di cui occorre prendersi cura”.
La loro situazione infatti rende difficile operare un distacco netto dal caregiver, in quanto è logico supporre che (almeno nei casi più gravi) spesso resti necessario che qualcuno provveda agli spostamenti, all’accompagnamento, all’igiene della persona con disabilità.
Questo farà sì che agli occhi dei più (special modo dei genitori) egli non appaia mai cresciuto, resti sempre quel ‘bambino bisognoso di cure’, ed un bambino ovviamente non ha impulsi sessuali.
In entrambi i casi emerge l’incredulità retrostante sulla possibilità che una persona, nonostante la disabilità, possa provare desiderio sessuale, seppur per ragioni differenti: il rischio è che, così facendo, si neghi alla persona con disabilità parte delle componenti che la rendono un ‘essere umano’ al pari di tutti gli altri, cioè quelle relative alla dimensione del bisogno.
La dimensione del bisogno
Come qualunque altra persona invece, anche le persone con disabilità provano non solo desiderio fisico, ma anche bisogno di affettività e amore. Nonostante sembri facile a dirsi, quando ci si apre alla concreta prospettiva della sessualità e disabilità, spesso, la principale reazione è quella di incredulità: si cade dalle nuvole per un qualcosa di completamente normale.
La sessualità, invero, si configura come una componente essenziale dell’identità umana e ciò con riferimento a diversi livelli del sentire tra cui quelli emozionali, psicologici, fisici e spirituali.
L’adeguato sviluppo di questa dimensione identitaria si realizza attraverso l’esperienza (diretta e indiretta) di una vasta gamma di comportamenti, emozioni e sentimenti vissuti nel proprio ambiente di vita e connessi ad un piano di relazionalità che l’individuo intesse con se stesso e con gli altri.
Nonostante comunemente ci si trovi a concepire la sessualità come una tappa evolutiva naturale e funzionale al processo di maturazione e socializzazione di tutte le persone, è vero anche che lo sviluppo della stessa, nelle biografie di vita delle persone con disabilità, risulta ancora oggi particolarmente critica.
Questo paradosso si manifesta poiché (nonostante i numerosi sforzi socio-culturali e giuridici orientati al riconoscimento e alla tutela di questa dimensione esistenziale) l’affettività, la sessualità e l’espressione sessuale delle persone con disabilità continua ad essere controversa e carica di pregiudizi.
L’emancipazione sociale
L’importanza della emancipazione personale, sociale e lavorativa rispetto alla famiglia e alla società più ampia, molto spesso questo percorso di autonomia incontra degli ostacoli, tra questi, appunto, si riscontra il fatto che queste persone hanno pochissime occasioni di ascolto, dialogo e confronto sull’affettività e sulla sessualità, principalmente a causa della scarsa preparazione culturale ed emozionale della società nell’accogliere questo aspetto della loro vita.
Questo processo di auto ed etero limitazione agisce in contrasto con la tendenza a favorire i processi di emancipazione, in quanto produce l’accantonamento di numerosi aspetti che sono invece di notevole importanza per la crescita della persona quali,
la consapevolezza e l’affermazione del sé emozionale ed affettivo
Altri aspetti da considerare nell’affettività e sessualità dei disabili
Altri aspetti e problematiche emotive sarebbero da prendere in considerazione: l’aggressività e l’esibizionismo, messi in atto in risposta allo stato di malessere o come tentativo di comunicazione sul bisogno di espressione sessuale.
Queste disfunzionali tendenze di comunicazione si configurano come lesive non solo per il benessere della persona con disabilità (la quale detiene bisogni che diventano taciuti e, di riflesso, spesso inappagati), ma anche per la stessa dinamica relazionale tra genitori e figli.
La scarsa dialogicità appare coerente con il fatto che, tra i familiari a cui è capitato di affrontare apertamente la questione con i propri cari, le emozioni provate da loro durante il confronto sono spesso di imbarazzo o incompetenza.
Un’ulteriore dinamica psicologica intrafamiliare che tende a presentarsi è quella inerente alla sostituzione: il familiare tende a filtrare le richieste o i bisogni del congiunto attraverso la propria soggettività, quindi sostituendo gli altrui vissuti e necessità con i propri schemi di valore, di interpretazione e di significato.
In questi casi, i bisogni della persona con disabilità cadono in seconda posizione, prevaricati dai bisogni soggettivi del caregiver.
L’intervento del Coach familiare
Tutte queste dinamiche che spesso prendono silenziosamente vita all’interno degli ambienti domestici devono, oggi più che mai, ritornare ad un livello di consapevolezza personale e collettiva.
La disabilità non può più rappresentare un limite e una fonte di rinuncia ai piaceri di una vita normale.
L’ambiente non può più annichilire la possibilità al benessere che la disabilità, seppur con i dovuti adattamenti, comunque in sé non nega.
Una società realmente inclusiva ed accogliente riconosce l’identità sessuale di ogni persona, con o senza disabilità, nel rispetto della libertà individuale di ognuno, in quanto accettazione di diverse modalità di libera espressione.
L’intervento del Coach familiare agisce anche e soprattutto su questi aspetti.
Si applica per rendere le persone con disabilità quanto più autonome possibili, incentivando, costruendo o intensificando le loro risorse personali, capacità e abilità.
Il Coach familiare aiuta oltremodo i familiari e chiunque abbia responsabilità sulla persona con disabilità, per alleggerirne il carico e promuovere un salutare distacco funzionale per entrambi, in special modo per sviluppare le autonomie del loro assistito.
Favorisce motivazione, speranza e realizzazione a quel percorso del ‘dopo di noi’ che, comprensibilmente, preoccupa molti familiari che assistono un caro con disabilità, supportandoli nella costruzione di un futuro più sereno e indipendente per l’assistito, e alleggerendo il peso delle responsabilità della famiglia.