Troppi psicofarmaci, troppi timori o poco dialogo?

Troppi psicofarmaci, troppi timori o troppo poco dialogo? La storia di Caterina

Sono molte, in Italia, le famiglie che si trovano a convivere a stretto contatto con un qualche tipo di disabilità o neurodiversità.

Questo non ha un impatto solo sulla persona direttamente coinvolta, ma sull’intero nucleo familiare che, spesso, non riesce a destreggiarsi tra le mille difficoltà, tra le incognite, tra i dubbi su cosa è meglio fare o non fare.

Tali dubbi si moltiplicano esponenzialmente quando è necessario ricorrere a terapie che prima erano totalmente sconosciute alla famiglia e, soprattutto, quando vengono prescritti degli psicofarmaci.

Questi, infatti, sono ancora ricoperti dallo stigma: negli anni si è consolidata l’idea che assumere psicofarmaci sia un tabù, una vergogna, nonché una cosa pericolosa. Ecco ecco che, pur di non farne uso, si accetta il disagio – magari sempre più grave – della malattia.

 

I dubbi sugli psicofarmaci sono davvero legittimi? Come possono essere superati?

Innanzitutto è necessario che, già all’atto della prescrizione degli psicofarmaci, la famiglia sia nelle condizioni di porre allo psichiatra tutte le domande del caso, esplicitando le eventuali paure o preoccupazioni.

È proprio in questo momento, che si deve creare il presupposto fondamentale per la corretta riuscita della gestione della malattia: la fiducia della famiglia nei confronti del professionista.

Ma come in ogni rapporto, la fiducia non è affatto scontata.

Da un lato, lo psichiatra deve porsi in una posizione di pieno ascolto, fornendo le dovute delucidazioni con tatto, empatia e rassicurazione.

D’altro canto, i familiari non devono commettere l’errore di diffidare a priori della figura medica o di dare più credito ad una ricerca su Google, ad un parere qualunque trovato su un gruppo Facebook o all’opinione “dell’amico di”.

 

È dunque giusto fidarsi ed affidarsi al primo professionista che capita per la prescrizione degli psicofarmaci?

Se questo è aperto a dialogo, confronto e collaborazione, assolutamente sì.

Ma se, al contrario, non presta la dovuta attenzione al vostro caso, non comunica adeguatamente con voi, non è disposto a dipanare i vostri dubbi o a collaborare con le altre figure che hanno in carico il problema:

  • educatori
  • psicologi
  • altri medici ecc.

 

voi avete non solo il diritto di rivolgervi ad un altro psichiatra per un secondo parere: ne avete il dovere.

Dovere nei vostri confronti, perché è giusto che siate guidati da una figura competente e comprensiva, e dovere nei confronti della persona di cui siete tutori.

Altrimenti, si rischia solo di peggiorare la situazione.

 

Il caso di Caterina

A questo proposito, è emblematico il caso di Caterina, una ragazza con ritardo mentale la cui famiglia, ad un certo punto, si rivolge a noi.

Dopo averla seguita per quasi un anno, ci si rende conto che il leitmotiv di questa famiglia era uno:

Ma Caterina sta assumendo troppi farmaci?

Questo dilemma tormentava l’intero nucleo familiare che, a sua volta, riversava i propri dubbi su chiunque: conoscenti, educatori, ecc..

Ovviamente, approfittiamo di questa sede per ricordare che un eventuale secondo parere su psicofarmaci e dosaggi deve sempre e soltanto provenire da un altro psichiatra.

Di conseguenza, quando la famiglia poneva questa domanda, si trovava davanti questi due ipotetici scenari:

  • uno prevedeva un interlocutore irresponsabile (e senza alcuna competenza) che si permetteva di elargire la propria opinione sulla terapia farmacologica. Questo naturalmente, non faceva che alimentare le paure e la diffidenza della famiglia nei riguardi della terapia realmente prescritta;
  • l’altro invece prevedeva un interlocutore responsabile, che rifuggiva dal dare pareri non di propria attinenza. Se questo è il modo corretto di agire, mettendoci nei panni della famiglia, possiamo però immaginare come tali “non risposte” potessero farli sentire totalmente abbandonati a se stessi.

 

E allora cosa fare? Il dialogo è la soluzione

La soluzione è dialogare col proprio psichiatra e pretendere che esso lavori in sinergia con le altre figure che hanno in carico lo stesso caso.

Spesso, però, le famiglie sono talmente abituate a:

  • non confronto
  • superficialità
  • “cavarsela da sole”

 

da rimanere impegnate con lo stesso professionista.

A volte accade, perfino, per “paura di offenderlo” nel caso si scelga di cambiare medico o perché ormai c’è una totale sfiducia che non permette di concepire che si può – e si deve – aspirare ad un rapporto medico-paziente migliore e veramente fruttuoso.

 

Sul caso di Caterina e gli psicofarmaci 

Possiamo raccontarvi che era seguita dal proprio psichiatra nelle seguenti modalità: due volte all’anno, per un quarto d’ora ciascuno, telefonicamente e senza alcuna possibilità di dialogo con altre figure.

È questo un modo corretto di “avere in cura”?

Tant’è che quando, come ogni farmaco, l’antidepressivo e lo stabilizzatore dell’umore prescritti a Caterina hanno presentato degli effetti collaterali, la famiglia, non adeguatamente preparata nel gestirli, è andata in allarme.

In effetti, il foglietto illustrativo di determinati farmaci può creare abbastanza preoccupazione, ma ricordiamoci che nonostante degli effetti collaterali possano essere presenti (e soggettivi sia nel tipo che nel grado), ci sono soprattutto gli effetti terapeutici.

Togliendo gli psicofarmaci, si rischia di togliere l’effetto benefico e terapeutico, il che è più grave di qualunque possibile effetto collaterale.

 

Senza psicofarmaci: Caterina manifesta comportamenti problema. 

Caterina, infatti, dietro il timore del “sta assumendo troppi farmaci?” si è vista togliere – col consenso del suo psichiatra, lo specifichiamo – un farmaco e ridurre fortemente il dosaggio di un altro.

La conseguenza? Caterina manifesta comportamenti problema che prima non aveva:

  • frequenti ed impetuose crisi di pianto;
  • evidenti tic nervosi;
  • un’importante stipsi.

 

Ovviamente adesso si sta supportando la famiglia nella gestione di tali difficoltà e sta cercando sia di mediare un confronto con le figure professionali coinvolte, sia di indirizzare la famiglia verso l’ascolto di un secondo parere medico.

Quando non si è sicuri di una qualsiasi terapia, è sempre bene chiedere un ulteriore parere competente e autorevole, così come è giusto pretendere il giusto livello di chiarificazione e di ascolto dei nostri bisogni. Se ciò non accade, si rischia di ricorrere al “fai da te”, che è la peggiore delle cure in circolazione.

 

Non abbiate paura dei farmaci

Abbiate invece paura di chi non vi presta la giusta attenzione e non è disposto a lavorare in rete.

Purtroppo, a volte anche tra i professionisti, c’è una sorta di onnipotente presunzione, che ostacola ogni tipo di rapporto e perfino di crescita del professionista stesso che, invece di chiedere consiglio ad un collega, rimane ancorato alle proprie convinzioni e ai propri modi di fare.

Quando vi sentite incastrati in una situazione del genere, abbiate il coraggio di pretendere di più, di pretendere un ascolto aperto e sincero e delle risposte altrettanto chiare e oneste.

Il metodo del coach familiare vi può aiutare anche in questo.

 

A cura di: Benedetta Altomonte, Laureata in Psicologia (team coach familiare)
Photo by Anna Shvets da Pexels

 

 

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