Progetto quid: un distretto produttivo inclusivo

Progetto quid: come un distretto produttivo inclusivo trasforma vite 

Oggi è una forma avanzata di inclusione lavorativa grazie alla creazione di un distretto produttivo inclusivo che vuole diventare modello nazionale.

Quando Progetto quid è nato a Verona nel 2013, era una piccola sartoria sociale.

La storia del Progetto quid dimostra come etica, sostenibilità e solidarietà possano convivere in un’impresa che cresce mantenendo salda la sua missione sociale.

 

Nascita ed evoluzione del Progetto quid 

L’intuizione di Anna Fiscale fu semplice: usare tessuti di scarto per creare capi di moda Made in Italy, affidando il lavoro a persone fragili (donne, ex detenute, persone con disabilità) che altrimenti rischiano di restare escluse dal mercato.

Così è nato il Progetto quid, con il chiaro scopo di ridare dignità, voce e autonomia.

Oggi impiega oltre 160 persone, di cui oltre il 70% con background di fragilità, e più dell’80% donne.

Fin dall’inizio il focus è stato l’inclusione lavorativa concreta, non simbolica. Non basta assumere: serve accompagnare, formare, eliminare ostacoli invisibili.

Il lavoro diventa così strumento di emancipazione ed empowerment.

 

Il funzionamento del distretto produttivo inclusivo: ordine, rete e integrità 

Il vero salto si è fatto con il piano per diventare un distretto produttivo inclusivo, una rete diffusa su territori diversi (Verona, Padova, Milano, Friuli, Pozzuoli) capace di coinvolgere entro il 2030 fino a 1.000 persone fragili, pur mantenendo un massimo di 200 dipendenti diretti.

Quid diventa così un abilitatore di reti, supportando cooperative radicate nei diversi territori.

 

Percorsi di inclusione lavorativa tramite l’articolo 14

Attraverso la Convenzione ex art. 14 Dlgs 276/2003 e Legge 68/99, il Progetto Quid costruisce commesse produttive con aziende partner, che possono delegare fino al 30% del personale obbligatorio su figure con disabilità ad una cooperativa sociale.

Questo meccanismo dà concretezza all’inclusione lavorativa.

Più di 25 imprese collaborano con la rete del Progetto quid, contribuendo ad assorbire decine di lavoratori con disabilità in percorsi stabili.

 

Welfare integrale e formazione continua 

Il lavoro diventa veicolo di crescita personale e sociale. Ogni collaboratrice o collaboratore fragile riceve:

  • affiancamento psicologico
  • formazione on the job
  • digital empowerment (SPID, conti correnti)
  • alfabetizzazione digitale
  • supporto psicopedagogico.

 

Incontrare Maria nel Progetto quid 

Immagina Maria, giovane donna con disabilità intellettiva, uscita da un percorso famigliare traumatico.

Quando entra nel Progetto quid, prima partecipa a un percorso formativo, poi entra nel laboratorio.

Oggi confeziona accessori e capi con grande attenzione estetica.

Parallelamente, supportata dall’ufficio welfare, ottiene lo SPID, apre un conto corrente e partecipa a incontri di empowerment.

È autonoma, sicura, socialmente integrata. È la perfetta espressione di cosa significa inclusione lavorativa vera dentro un distretto produttivo inclusivo.

 

In conclusione: perché il Progetto quid fa differenza?  

Spiegano da Progetto quid, sottolineando la natura partecipativa del loro modello:

“Il nostro motto è trasformare persone e tessuti. Operiamo su tre leve virtuose: formazione on the job, supporto pedagogico e psicologico.”

Vediamo con qualche numero perché il Progetto quid può fare la differenza:

  • Impatto sociale misurabile: obiettivo 1.000 persone coinvolte entro il 2030 e un modello replicabile e scalabile.
  • Empowerment e autostima: come ha raccontato Anna Fiscale “Quid mi ha restituito la voce” è diventato il motto di chi assume fiducia e identità personale.
  • Rete tra profit e non profit: imprese e cooperative insieme costruiscono filiere, contaminando altri settori oltre la moda, per generare valore condiviso.

 

ph. Pixabay by pexels

 

 

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