Psicologia di comunità: storia e sviluppo
La Psicologia di comunità ebbe origine dalla crisi politiche e sociali che gli Stati Uniti d’America attraversarono negli anni ‘70.
Parallelamente infatti alle crisi e ai movimenti politici da esse scaturite ci fu anche una rivoluzione nel panorama psicologico, dovuta da aspetti economici e sociali.
Inevitabilmente questi fattori impattarono sulla spesa pubblico-sanitaria, portando quindi ad una riconfigurazione dell’assetto assistenziale: il sistema economico statunitense entrò in crisi e la spesa sanitaria ne risentì in negativo.
Si sviluppò una voglia di cambiamento da parte degli psicologi che chiesero a gran voce una maggiore considerazione da parte del sistema sanitario nell’organizzazione dei servizi.
Queste sono le premesse per un passaggio sostanziale nella concezione della malattia e della disabilità.
Fino a quel momento il “modello Medico” era la prospettiva principale, secondo cui venivano erogati i servizi sanitari e assistenziali, questo modello considerava il destinatario delle cure come un soggetto passivo, che deve essere assistito e non può essere una figura partecipante nella società.
Tuttavia l’ambiente sociale non era considerato come una possibile fonte di problematicità.
Il “modello Psico-Sociale”
Contestualmente ai movimenti per i diritti civili e al riassetto del “modello Medico”, cominciò a prendere piede il “modello Psico-Sociale”, il quale mise in relazione la persona e l’ambiente.
Secondo questo modello un disturbo non è solamente insito nella persona in quanto sé stessa, dipende invece dalla
- persona
- richieste dell’ambiente
- da come interagiscono queste due componenti.
Con questo cambio di prospettiva, la malattia o il disturbo non viene più considerato un difetto del malato ma diventa un problema di tutta la società.
Lo Psicologo di comunità
Oltre alle suddette variabili, entra in gioco la figura dello Psicologo di comunità, un professionista che studia l’ambiente sociale e interviene per promuovere un cambiamento.
Sempre negli Stati Uniti, nel periodo degli anni ‘70, gli Psicologi di comunità intrapresero un lavoro di rete, collegando servizi e facendoli cooperare tra loro, attuarono interventi di prevenzione sulle popolazioni considerate a rischio, ad esempio gli afroamericani e i sudamericani, per aumentarne l’integrazione nella società, intervenendo sulla scuola primaria o addirittura prima dell’età scolare, durante la prima infanzia.
In questo senso lo Psicologo di comunità è una figura che opera a livello sociale, si avvale di studi della sociologia e della psicologia clinica, e si differenzia da queste per il luogo di lavoro che è appunto la società.
Inoltre, i destinatari degli interventi sono le popolazioni della società che sono a maggior rischio, che sono discriminate o più bisognose di aiuto.
Lo Psicologo di comunità si focalizza maggiormente su:
- lavoro di rete, quindi mette in contatto servizi diversi per raggiungere uno scopo comune;
- partecipazione attiva di tutti gli attori, sia operatori che destinatari dell’intervento;
- lavoro di promozione del benessere e di prevenzione di malattie o disagi psichici;
- interventi psicosociali, che mirano a promuovere benessere a livello sociale, quindi non solo di un singolo ma di un gruppo di persone specifico.
Un libro sulla Psicologia di comunità
Nel suo libro “Psicologia di Comunità”, Donata Francescato discute l’importanza della partecipazione attiva delle persone all’interno delle comunità e di come la psicologia possa contribuire a promuovere il benessere collettivo.
In questo libro, la Francescato offre una prospettiva approfondita sull’applicazione della psicologia in contesti sociali più ampi, evidenziando l’importanza di considerare non solo l’individuo ma anche il contesto in cui vive e interagisce./vc_column_text]
La prevenzione
Gli aspetti di prevenzione della Psicologia di comunità integrano interventi di screening, ma anche tipologie di training per i malati psichiatrici per poterli reintegrare nella società.
Se con il precedente “modello Medico” questa opzione era scarsamente contemplata e, quando attuata, riportava pessimi risultati, con il nuovo approccio derivante dal “modello Psico sociale”, si iniziarono a vedere dei miglioramenti nei risultati, rendendo il reinserimento nella società un’opzione praticabile dati i migliori risultati ottenuti da training specifici per la persona.
Un nuovo modello teorico
A seguito della diffusione del “modello Psico sociale”, ampliato della componente biologica della persona, si parla quindi di un “modello bio-psico (relativo alla salute mentale) – sociale (relativo agli sfide e pressioni poste dalla società)”.
Si arrivò a definire durante gli anni ‘90 l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), un sistema di classificazione multidimensionale per la valutazione della salute mentale e del funzionamento umano che considera la salute mentale come il risultato di un’interazione complessa tra fattori biologici, psicologici e sociali.
Prima dell’ICF era utilizzato l’ICIDH (Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap) che però presentava due limiti principali: era un modello statico, cioè non considerava l’influenza di fattori ambientali e sociali; e aveva un eccessivo focus sulla “normalità” e non teneva conto della diversità.
Psicologia di comunità e ICF
Nel 2001 l’OMS adotta l’ICF, intraprendendo la strada lungo la quale si sta muovendo ancora oggi.
L’ICF fornisce un linguaggio comune per descrivere la salute e il benessere in termini di:
- funzionamento
- disabilità
- contesto.
Questo approccio olistico considera l’individuo non solo come un paziente con una malattia, ma come una persona con capacità, abilità e ruoli sociali che possono essere influenzati da fattori ambientali.
L’ICF, con la sua attenzione al funzionamento e al contesto, può essere utilizzato per:
- valutare i bisogni della comunità in modo olistico, considerando le diverse dimensioni della salute e del benessere;
- pianificare interventi di prevenzione e promozione della salute mentale che siano evidence-based (con fondamento scientifico) e adattati alle specificità della comunità;
- monitorare l’impatto degli interventi e valutare la loro efficacia nel migliorare il benessere della comunità.
La psicologia di comunità e l’ICF offrono una cornice teorica e metodologica solida per promuovere la prevenzione e l’inclusione a livello sociale.
L’utilizzo congiunto di questi strumenti può contribuire a creare una società più giusta e inclusiva, in cui tutti gli individui possano avere la possibilità di raggiungere il loro pieno potenziale.
Alcuni esempi di utilizzo di Psicologia di comunità e ICF
Esempi di come la psicologia di comunità e l’ICF possono essere utilizzati a fondamento di interventi di prevenzione e promozione dell’inclusione sono:
- programmi di educazione alla salute mentale nelle scuole per aumentare la consapevolezza e ridurre lo stigma.
- interventi di sostegno alla genitorialità per favorire lo sviluppo di relazioni sane all’interno della famiglia.
- creazione di reti di supporto per persone con disabilità o in situazioni di difficoltà.
- promozione di ambienti di vita e di lavoro inclusivi e accessibili a tutti.
Psicologia di comunità, ICF e Progetto di vita
La psicologia di comunità fornisce l’approccio metodologico, l’ICF il linguaggio comune e il Progetto di Vita è lo strumento concreto per attuare i principi della legge 328/2000.
In questa sinergia, si promuove il benessere e l’inclusione sociale della persona con disabilità, favorendo la sua piena partecipazione alla vita della comunità.
Come già detto, la piena attuazione della legge 328/2000 richiede impegno da parte di tutti gli attori coinvolti:
- persone con disabilità
- famiglie
- servizi
- enti locali
- società civile.
Occorre superare le barriere culturali e strutturali che ancora ostacolano l’inclusione e promuovere una cultura della disabilità basata sul rispetto, la dignità e l’uguaglianza.
a cura di Carlo Alberto Vitali
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